Mullineux & Leeu inaugurano Cittamani a Milano

Mullineux & Leeu Cittamani sala

Non è un ristorante indiano. È il ristorante di una cuoca indiana a Milano. È Cittamani. Il ristorante di Ritu Dalmia.

Ritu è indiana, è simpatica, parla un po’ in italiano e un po’ in inglese, ha vissuto in Italia, ha aperto una serie di ristoranti in India, è venuta qui a Milano per aprire il suo primo ristorante nel nostro paese.

Il locale è molto bello – fino a poco tempo fa qui c’era il Verdi, uno di quei ristoranti “classici”, dove magari non sei mai stato perché tanto è lì, c’è sempre… Ecco.

All’ingresso, il cocktail bar, un po’ di posti a sedere, un tavolo. Dietro, un’ampia sala.

L’aspetto non è “indiano” in senso folkloristico, così come del resto la cucina non è indiana in quel senso lì. Ma è sicuramente indiano, nonostante i grandi bellissimi vasi esposti sulla parete di fondo, quella della cucina, e una serie di conigli bislunghi, alla Giacometti (ma non così tormentati), che occhieggiano in giro.

Sono sudafricani: la società che ha aperto Cittamani con Ritu è Leeu Collection, fondata dall’imprenditore Analjit Singh (in sanscrito Singh significa “leone”, che in lingua afrikaans si dice “leeu”), proprietaria fra l’altro di centri residenziali a cinque stelle tra i vigneti del Sudafrica (i cui vini berremo durante la serata), del Linthwaite House, un boutique hotel sul lago di Windermere, nel Lake District inglese (ma non aprirò una digressione su Wordsworth e compagnia), e probabilmente dal 2021 di “Villa Querce” a Firenze, un nuovo hotel di lusso con una settantina di camere.

La cucina è affidata alle mani e alle pentole di Shivanjali Shankar, giovane resident chef che fino a poco fa ha lavorato con Ritu Dalmia in India. Ritu sarà a Milano una decina di giorni tutti i mesi.

La conoscenza della cucina indiana qui a Milano si appoggia su alcuni ristoranti, anche “storici”, e sui racconti degli amici che sono stati in India, e che son pronti a giurare che la vera cucina indiana si mangia solo in India, anzi soltanto nel Punjab, anzi solamente nel Marahashtra orientale, nell’Himashal Pradesu, ma solo in quella trattoria che conoscono loro… Un po’ come i napoletani che la vera margherita si mangia solo ai Tribunali.

Non troverete molto di queste cucine da Cittamani. No, anzi: la cucina indiana c’è tutta, a livello di forma mentale, di sensibilità, e ovviamente di preparazioni e portate. Ma è una cucina indiana moderna, contaminata, riletta con gli occhiali del presente e con gli alfabeti del mondo. E dell’Italia, dove Ritu ha iniziato a cucinare. Ritu che ha detto, in un’intervista, che quella che mangiamo qui in Italia non ha molto a che vedere con la cucina indiana. Quindi, partiremo da zero, senza preconcetti e teorie su cosa sia o non sia indiano. 

Tirando le somme: una cena che mi è piaciuta, anche perché non avevo idea di come fosse l’alta cucina indiana; come mi sono piaciuti i vini sudafricani di Mullineux & Leeu (a proposito, la ricca carta dei vini è curata da Sandra Ciciriello: l’ho solo sfogliata, ma sarà un piacere tornare e studiarsela un po’).

Come mi è piaciuta Ritu Dalmia, col suo misto di inglese e italiano e la sua cucina mista anch’essa (ci ha anche raccontato i suoi piatti italiani preferiti: un giro d’Italia della tradizione, ovviamente, ma ha lasciato trapelare anche qualche incursione gourmand…); e la giovane resident chef (copioeincollo di nuovo) Shivanjali Shankar, con cui ho scambiato solo due parole: ha l’aria giovane, ma capace.

(Scatti di Gusto di Emanuele Bonati  Immagini: Modestino Tozzi, iPhone Emanuele Bonati)

Pubblicato il 15/11/2017 alle ore 16:32

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